24 ottobre 2008

Ora d'aria
l'Unità, 23 ottobre 2008

Solo una democrazia malata poteva accogliere con un coro unanime di gridolini gaudiosi l’elezione unanime dell’avvocato Giuseppe Frigo a giudice costituzionale. Frigo, intendiamoci, è persona perbene e all’antica, come dimostrano anche i baffi a manubrio, già demodé quando li portava Umberto I. Ma che sia il candidato ideale per la Corte costituzionale, è tutto da vedere. Non perché abbia difeso questo o quello (nella sua pirotecnica carriera è riuscito a difendere il Pool di Milano nel conflitto di attribuzione alla Consulta sulla richiesta d’arresto per Craxi, poi a difendere Previti che aveva denunciato il Pool per calunnia; e, detto tra parentesi, perse entrambe le cause). Ma per un motivo più serio. La Consulta è lì per proteggere la Costituzione dalle leggi incostituzionali. La Costituzione vigente, non un’altra. Frigo, legittimamente, ne vuole un’altra. Da anni si batte per la separazione tra giudici e pm. Liberissimo di sognarlo, ma la Costituzione prevede la carriera unica.

Poniamo che il governo Berlusconi - la cui maggioranza l’ha candidato alla Consulta - presenti una legge che separa le carriere. La legge sarebbe incostituzionale, ma Frigo ha già detto che va benissimo. Presto la Consulta dovrà pronunciarsi sulla legge Alfano, dichiarata palesemente incostituzionale da 4 ex presidenti della Consulta e da centinaia di giuristi. Ma proprio l’altroieri, mentre veniva eletto, Frigo faceva sapere che “il lodo Alfano non è tra le cose più importanti di cui la Consulta dovrà occuparsi”: strano, visto che c’è un referendum in arrivo ed è in gioco l’articolo 3, cioè il principio di eguaglianza. Comunque è altamente inopportuno che il futuro giudice della legge anticipi in qualche modo il suo giudizio su una legge che dovrà giudicare.

Ma c’è un altro capitolo della sua biografia che dovrebbe vivamente sconsigliare il suo approdo alla Consulta, e invece, in questa democrazia malata, l’ha accelerato. Risale al 1998, quando l’Ulivo e il Polo decisero di mandare a monte i processi di Tangentopoli, giunti ormai a un passo dalle sentenze definitive. Come? Cambiando le regole a partita in corso. Con soli 4 voti contrari fra Camera e Senato, destra e sinistra amorevolmente abbracciate riformarono l’articolo 513 del Codice di procedura penale, stabilendo che le accuse lanciate da Tizio a Caio in fase d’indagine non valevano più contro Caio se Tizio non tornava in tribunale a confermarle. Se non ci tornava, o ci tornava e taceva o ritrattava, quel che aveva detto prima evaporava. Una norma fatta su misura per i processi di Tangentopoli, nati da dichiarazioni di imprenditori che confessavano, facevano i nomi dei politici corrotti, patteggiavano la pena e tornavano in azienda. I politici invece, più lungimiranti, confidavano nei tempi biblici della giustizia italiana e preferivano il dibattimento: dunque venivan processati anni dopo. I pm concedevano il patteggiamento a Tizio, sicuri di poter usare le sue dichiarazioni nel processo a Caio. Non sapevano che, nel bel mezzo del processo, il Parlamento le avrebbe cestinate. Cambiata la legge, i tribunali convocarono tutti i Tizi perché tornassero a ripetere le accuse ai Caii: ma visto che nessuna legge li obbliga a farlo né li punisce se non lo fanno, non tornò nessuno. Così i processi ai Caii finirono in prescrizione per il tempo perduto a rifarli da capo, o in assoluzione: non perché i Caii fossero innocenti, ma perché gli amici parlamentari avevano abolito le prove a loro carico. La storia di Tangentopoli è piena di condanne a Tizio per aver corrotto Caio e di assoluzioni a Caio dall’accusa di essersi fatto corrompere da Tizio. Roba che neanche Ionesco.

Bene, l’artefice di questo capolavoro è Frigo, all’epoca presidente delle Camere penali. Naturalmente la Consulta abolì l’obbrobrio. Frigo indisse uno sciopero contro la Consulta. Il presidente Scalfaro parlò di sciopero “eversivo” e Frigo lo insultò: “Esternazioni quasi patologiche”, manco fosse al bar. Il Parlamento riapprovò la norma incostituzionale in meno di un anno, e sotto forma di legge costituzionale, così la Consulta non potè più farci nulla: è il nuovo articolo 111, detto comicamente “giusto processo”. Un articolo incostituzionale nella Costituzione: si pensava di aver visto tutto, invece ora l’autore di quella robaccia ascende alla Corte costituzionale. Ora ci tocca pure tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo dei Pecorella e degli Spangher. Ma esultare addirittura pare francamente eccessivo.

Marco Travaglio

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